La base militare turca in Qatar e le speranze di Erdogan

di Lorenzo Centini

La base militare turca in Qatar e le speranze di Erdogan

La Turchia nel nuovo contesto

Il nuovo contesto mediorientale, segnatamente diverso dalla trincea fattuale di solo pochi mesi addietro, ha costretto tutte le potenze regionali ed internazionali a ricalibrare le loro strategie inerenti ai due nodi da sciogliere: il governo del presidente Bashar Al-Assad e la ritirata dell’ISIS sotto i bombardamenti russi.
Molti parametri sono cambiati: l’alleanza tra Putin ed Assad non si è spezzata, gli Stati Uniti non hanno retto il gioco della Turchia contro la Russia e almeno due paesi, Iran e Arabia Saudita, o hanno potenziato i propri dispositivi militari nella guerra civile siriana (Iran) o hanno paventato, con diverso grado di credibilità, un impegno corposo in tal senso (Arabia Saudita).
Questi fatti hanno indubbiamente rafforzato il fronte legittimista, che prima dell’invio russo di truppe e mezzi russi sembrava in serio pericolo. La liberazione di Palmira, così simbolica nella battaglia metaculturale contro l’islamismo, rappresenta il frutto di questo cambio di rotta.
Da questa nuova  posizione di superiorità strategica l’asse legittimista ha potuto allargare la sfida frontale anche ad un altro “padrino” della rivolta siriana: la Turchia. La quale, sfruttando la schermatura offerta da un comportamento ambiguo e da molti crediti da spendere in sede NATO, ha potuto giocare di sponda nel conflitto siriano, diventando in breve tempo il vero punto di riferimento dei ribelli anti-assadisti.
Questo passaggio, vale a dire dal patrocinio statunitense e saudita a quello turco, ha rappresentato il primo snodo attraverso il quale gli equilibri in campo sono cambiati. La Turchia, nel conflitto siriano, è difatti interessata a 3 risultati, non sempre in linea con l’asse Ryadh-Washington:

  1.  La distruzione militare e politica della Resistenza Curda. Non è un caso che all’intervento cripto-militare in appoggio ai ribelli si sia accompagnata ua vigorosa offensiva selettiva delle basi curde dentro la Turchia. Questo comportamento è frutto di frizione con gli Stati Uniti, i quali invece hanno sempre “coccolato” (insieme agli israeliani) i curdi[1], considerandoli un ottimo grimaldello contro l’unità del mondo arabo. In questo e’ possibile anche ravvisare un “contentino” di Erdogan alle proprie gerarchie militari, macellate dalle sue presidenze ma armate contro un nemico (interno) comune.
  2.  La creazione di un “sangiaccato” filoturco nella zona a ridosso del confine con la Turchia. La frammentazione della Siria, opzione considerata dai maggiori commentatori di politica internazionale fin dal 2012, è un terno al lotto, nonchè un vecchio pallino dei neocon americani e degli israeliani. Lo scontro in atto tra le elites americane (Obama/Kerry contro Neocon/Clinton) ricalca quello interno alle gerarchie reali dei Sa’ud, i quali membri “progressisti” vorrebbero un uscita di scena unitaria[2], magari con un accordo al ribasso, contro i membri oltranzisti, che definiscono la linea ufficiale, che invece vorrebbero una “emiratizzazione” dello Sham. In entrambi i casi Ryadh non otterrebbe molto da una Siria frammentata, se non una (forse) maggior sicurezza in relazione alla debolezza degli stati balcanizzati.
  3. La deviazione dello Stato Islamico verso l’Iraq. Concepito fin da subito come un “marchio” che potesse contagiare anche le popolazione sunnite del vicino Iraq, il primo ciclo di patrocinio (Arabia Saudita-Stati Uniti) lo aveva adoperato come pistola alla tempia del regime di Assad e come casus belli sempreverde per un futuribile intervento in loco. Seppur “spinto” verso Est per la volontà di mettere fiato sul collo all’Iran (necessità eminentemente saudita), il nucleo operativo ed “ideologico” del Califfato (nonchè il suo quartier generale, Raqqa) rimane in Siria. La spinta turca verso l’Iraq[3] è un favore a chi è interessato invece alla suddetta messa in pericolo delle frontiere iraniane, e trasforma l’interesse turco da antiassadista in antiraniano, regionalizzando definitivamente la nuova Turchia attaccabrighe di Erdogan. Come vedremo in questo il governo turco si fa “manovrare” dai centri di potere in Qatar, in parte nella stessa Arabia Saudita e a Tel Aviv, entrando in contrasto con Obama, che invece vorrebbe mantenere l’ISIS un affare “siriano”.

Si capisce bene quindi come la Turchia sia adesso, nell’architettura imperialista, un “cane pazzo”. Tale condizione, molto simile a quella israeliana (con i quali infatti i turchi intrattengono proficui rapporti), la porta a ricercare sponde ed alleanze esterne, che nel momento dell’abbandono da parte dei centri di potere, possano garantirgli una certa sopravvivenza se non altro diplomatica.

Turchia e Qatar: Fratellanza Musulmana connection

Una di queste sponde la Turchia, abbandonate la dottrina “Zero problemi coi vicini” di Davotoglu, l’ha trovata nel Qatar della famiglia Al-Thani.

Erdogan con Haniyeh e Meshaal, entrambi referenti della Fratellanza in Palestina

Il Qatar, emirato assoluto molto vicino (ma anche in contrapposizione) ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, ha avuto con la Turchia un rapporto di amicizia stretto soprattutto dopo la rislamizzazione dello spazio politico turco da metà anni ’90. Tale rapporto vive sul binario della Fratellanza Musulmana, che molto peso ha avuto nella fondazione dell’AKP di Erdogan e che tutt’ora lo supporta, più o meno apertamente[4]. La stessa Fratellanza Musulmana che nel Qatar ha trovato un ottimo rifugio dopo le persecuzioni ad opera dei regimi laici panarabisti nel secondo dopoguerra, e che dagli stessi qatarini è utilizzata come cinghia di trasmissione della propria influenza negli ambienti religiosi e politici mediorientali[5].
Qatar e Turchia sono spalla a spalla nel supporto ai Fratelli Musulmani i quali, seppur sconfitti in Egitto (con la destituzione di Morsi e la messa al bando del movimento da parte di El-Sisi) e in Libia (dove il rampante Mahmoud Jibril, dopo un inizio travolgente, e’ stato spodestato a capo del suo partito),hanno ancora molti capitali politici da spendere in Tunisia (dove il movimento di riferimento, al-Nahḍa, è al governo) e Palestina (dove Khaled Meshaal rappresenta esattamente l’uomo del Qatar dentro la Resistenza Palestinese).
Purtuttavia, se, come ricordavamo prima, la Turchia si è conquistata sul campo il patrocinio militare e politico dei ribelli siriani e del terrorismo a loro direttamente (ed indirettamente) connesso, secondo Thierry Meyssan la Turchia ha polarizzato su se stessa anche il ruolo di riferimento statuale della Fratellanza:

“Quando, nel settembre 2014, il Qatar evita una guerra con l’Arabia Saudita con l’invitare i Fratelli Musulmani a lasciare l’Emirato, Erdoğan coglie di nuovo la palla al balzo, tanto da ritrovarsi in veste di unico sponsor della Confraternita a livello internazionale”[6]

La controversa crisi in questione ebbe inizio quando l’Arabia Saudita e Qatar, dove Ryadh guidò il Bahrein e gli Emirati Arabi Uniti alla chiusura delle relazioni con Doah al fine di spingerla a dismettere il suo appoggio alla Fratellanza rea, a dire di Ryadh, di interferire con gli affari interni degli altri paesi del Golfo. Ryadh si riferiva ovviamente alla grande copertura culturale e giornalistica offerta da Al-Jaazera (il cui ex direttore generale era un certo Wadah Khanfar, decano della Fratellanza in Giordania), ma anche alle posizioni divergenti di Doha riguardo l’Egitto (dove essa sosteneva il destituito Morsi) e la concorrenza dentro l’estremismo islamico nelle milizie anti Assad in Siria.
A seguito della crisila Turchia accolse in gran stile i membri della Fratellanza che, cacciati dal Qatar, proprio in Turchia trovarono una nuova casa. Ebbe a dire lo stesso Erdogan:

If there are any reasons that would prevent them from coming to Turkey, they would be assessed. And if there aren’t any obstacles, they would be granted the ease that is granted to everyone”[7] 

 Sarebbe quindi da almeno tre anni che la Turchia muove i fili della Fratellanza nel complesso scacchiere del Medioriente. Egida che parrebbe confermata dal fatto che le due potenze maggiormente interessate alla destituzione di Assad, Turchia ed Arabia Saudita, abbiano condotto nel 2015 incontri segreti per quello che doveva essere il rendez vous militare, nel quale la fanteria turca e l’aviazione saudita avrebbero dovuto supportare una nuova offensiva da parte delle milizie anti-Assad, senza interpellare il Qatar[8]. La sicurezza con cui Ankara gestisce (o ritiene di gestire) la fedeltà dei singoli gruppi combattenti in Siria la dice lunga su quale nuovo padrone abbiano i Fratelli Musulmani e loro estroflessioni militari.

3’000 soldati contro tutti

Lo sviluppo di una base militare turca in Qatar è un progetto accarezzato dai due stati fin dal 2015, quando un protocollo di intesa in materia di difesa e di sicurezza era stato proposto dall’emiro Tamim bin Hamad Al-Thani e successivamente accettato dal presidente Erdogan e ratificato dal parlamento turco.
Il Qatar non è nuovo nell’offrire il proprio territorio a basi estere: esso accoglie già la base americana di Al-Udeid, la più grande nella regione, aperta nel 2003 e fortemente voluta dallo stesso emiro di

Recep Erdogan con l’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al-Thani

allora, Hamad bin Khalifa Al-Thani. Allora la base fu la normale conclusione di un certo rapporto di collaborazione militare tra Stati Uniti e Qatar, il quale aveva appoggiato la grande coalizione contro Saddam Hussein.
Con la concessione di basi a forze estere il Qatar vuole risolvere il grande problema della propria difesa, messa a repentaglio dal differenziale tra il suo gnomismo militare e il suo dinamismo in termini di politica estera. La vicinanza col vicino saudita, che si è in passato arrogato il diritto di fare da gendarme della penisola arabica, spaventa da sempre il piccolo Qatar.
L’unica occasione per il Qatar di difendersi in maniera perpetua dalle due grandi minacce che lo attanagliano (quella saudita e quella, percepita, iraniana) è quella di costituirsi come linchpin state mediorientale: uno stato che valga strategicamente per la sua posizione geografica e la mallealbilità multilaterale delle sue elites.
In questo senso la politica delle basi costituisce la reificazione in ambito militare di questa situazione. Costituendosi come snodo di molte alleanze multilaterali il Qatar diventa “zona franca” degli appetiti degli opposti imperialismi esso vuole evitare che un espansione di una forza subregionale (in questo caso l’Arabia Saudita) lo possa travolgere.
La costruzione di questa nuova “verginità” strategica qatarina dopo il dinamismo degli anni passati si innalza sulla architrave della diversificazione. Il linchpin state è tanto più al riparo da appetiti contrapposti quanto più costituisce una “bandierina” per un’altra potenza. Se la base di El-Udeid è la garanzia americana di avere un bastione contro l’Iran nel Golfo Persico, la base turca potrebbe diventare il viatico per una difesa turca da eventuali atacchi sauditi.
Questo, per il Qatar, è tanto più urgente quanto più diventa evidente la volontà americana di lasciare la gestione del caos mediorientale alle potenze regionali. Costituirsi quindi come una pedina della aspirate forza regionale turca è per Doha necessario al fine di non rimanere col cerino in mano di fronte al ritiro delle forze statunitensi in un domani nel quale i dialoghi di apertura con l’Iran dovessero proseguire.
Continuando a riflettere su questo intreccio, è lecito pervenire alle conclusioni di Olivier Decottignies e Soner Cagaptay su un articolo del Gennaio 2016:

“The same applies to the 3,000-strong Turkish deployment envisaged in Qatar. Although the North Atlantic Treaty does not extend collective defense to allied forces deployed in the Gulf, the United States has its own military headquarters in Qatar, as well as its largest air base in the Middle East, al-Udeid. Washington is thus in the same boat as Ankara and could become the Turkish base’s de facto guarantor”[9]

A queste condizioni quindi la politica del “ricatto strategico” sarebbe a tre, con la Turchia interessata a mantenere gli Stati Uniti in Medioriente allargando informalmente il legame di mutua difesa che lega Turchia e USA mediante la NATO anche al Qatar.

In tutto questo la Turchia cosa può ottenere da questa base militare? Fondamentalmente questi benefici:

  1.  Accreditarsi come partner militare per tutte le petromonarchie del Golfo, le quali costituiscono un giacimento di denaro e di risorse energetiche pressochè infinito. La smania Turca di aggiudicarsi un posto a tavola nel banchetto energetico mediorientale, sia comprando il petrolio contrabbandato illegalmente dall’ISIS, sia stipulando contratti di reciproco aiuto con Israele nella estrazione di gas naturale nel Mediterraneo orientale, è evidente. D’altronde, come ricorda correttamente Mahdi Darius Nazemroaya[10] le liason dangereux israelo-turche, di molto precedenti alla collaborazione militare aperta delle due mediopotenze in Siria.
  2. Con una base militare praticamente in bocca alle coste iraniane la Turchia potrebbe di fatto costruire una seconda cintura di sbarramento all’Iran, questa volta di fattura israelo-turca e non direttamente statunitense. Sempre al fine di non lasciarsi trovare impreparati dal ritiro americano (totale) o da un’intesa di comodo con i governi riformistici iraniani, Turchia Israele (ed in parte Arabia Saudita) starebbero lavorando ad un “cordone sanitario” antiraniano che possa camminare sulle proprie gambe anche dopo un ritiro americano dalla regione. Tale prospettiva, preparata da almeno tre anni di riavvicinamento tra MIT e MOSSAD, sarebbe completata dalla futura visita del ministro degli esteri saudita Adel al-Jubeir in Israele, programmata per il prossimo Luglio.
  3. La base militare in Qatar potrebbe essere un ottimo incentivo a sviluppare ancora di più il cappello militare turco sul Qatar, che è da alcuni anni un ottimo mercato per l’industria militre turca. Tra il 2010 ed il 2014 la spesa militare dei paesi del golfo è salita del 66 %, passando da 74,7 Miliardi di dollari a 124,1 miliardi di dollari. Questo eldorado è a disposizione dell’industria militare turca, che, sospinta dal progetto “Vision 2023”, ha di molto incrementato la sua produttività, forgiando prodotti da piazzare anche sul mercato internazionale. La Koç Holding produce già da qualche anno nello stabilimento di Sakarya il Cobra, adottato dalle Nazioni Unite come mezzo corazzato nei teatri di guerra. La FNSS (conglomerato della BAE Systems e Nurol) già fornisce mezzi corazzati terrestri agli eserciti della Malaysia, Emirati Arabi Uniti e ovviamente a quello turco, e ha collaborazioni con quello indonesiano per lo sviluppo congiunto di un carrarmato leggero. Fa giustamente notare Bruno Ferroglio[11] dalle colonne di “Lotta Comunista” che con questa volontà di diventare una potenza industrial-militare, la Turchia segue la retta generica di ogni mediopotenza regionale che si voglia accreditare come “pseudomondiale”. In questo la creazione in Qatar di un feudo di smercio della propria industria bellica rientra pienamente nel suddetto progetto.

In definitiva, possiamo dire che la creazione di una base navale in Qatar da parte della Turchia (insieme alla ventilata ipotesi di una simile inglese in Bahrein) sia il tentivo di Erdogan di riclassificare Ankara come una potenza regionale imprescindibile, accollandosi il difficilissimo rimland degli emirati del Golfo Persico. Ovviamente Ankara ritiene di poter contare sulle spalle coperte dei sauditi e degli israeliani, senza la quale copertura diplomatica riuscirebbe difficile alla Turchia costituirsi come arbitro internazionale in Medio Oriente senza suscitare legittimi mal di pancia.
Ovviamente il rovescio della medaglia è la sovraesposizione della forza turca, che ha almeno tre linee di faglia: quella in Europa, dove, seppur fustigato, il sogno di un posto a Bruxelles dura ancora, la guerra in Siria, che pare non volgere molto bene per le forze ribelli, e lo scontro diretto con la Russia, che rischia di bloccare alla Turchia la via al Caucaso, proprio quando Armenia e Azerbaijian (feudo turco) sono di nuovo ai ferri corti per il Nagorno Karabakh.
Non sono in pochi a pensare che Erdogan si sia impegnato in troppi tavoli come protagonista, ma le sirene decliniste che avevano fissato alle recenti elezioni la sua debacle sono rimaste deluse, anche se l’AKP ha perso la maggioranza assoluta.
In questi giorni si sta tenendo ad Istanbul il tredicesimo incontro dell’OIC, occasione nel quale i maggiori capi di stato delle nazioni interessate dal caos mediorientale (Arabia Saudita,Qatar,Turchia,Iran,Egitto ecc) potranno confrontarsi fuori dalle logiche dei negoziati di Ginevra.
Voci di corridoio sostengono che, proprio dentro questa cornice, avverrà un incontro molto importante tra il capo del Mossad Yossi Cohen, il ministro degli Affari Esteri saudita Adel al-Jubeir, il capo della diplomazia turca Mevlüt Çavuşoğlu e il ministro degli Esteri qatarino Abdel Rahman Al Thani. Che sia questa l’ennesima dimostrazione della connessione Ryadh-Ankara-Tel Aviv-Doha per lanciare una nuova sfida, motu proprio, all’Iran?

 

[1] Stefano Zecchinelli, “Erdogan e Netanyahu per la Balcanizzazione della Turchia”,uscito su L’Interferenza il 4/03/2016
[2] http://www.veteranstoday.com/2016/04/03/former-saudi-crown-prince-criticized-saudis-position-against-syria/
[3] Alcune testate specialistiche italiane hanno riportato la testimonianza di un “anonimo attivista dell’ISIS” secondo il quale il Califfato sarebbe pronto ad abbandonare Raqqa: http://www.analisidifesa.it/2016/04/il-califfo-si-prepara-ad-abbandonare-raqqa/
[4]  Lucie Drechselova, “AKP’s hidden agenda or a different vision of secularism?”uscito su Nuovelle  Europe il 7/04/2013
[5] Layla Al-Shoumary, “Le des Frères Musulmans pave la route pour le Qatar”, uscito su Al-Akhbar il 12/04/2013
[6] Thierry Meyssan, “Verso la fine del sistema Erdogan” uscito su Rete Voltaire il 15/06/2015
[7] http://www.copts-united.com/English/Details.php?I=1205&A=15779
[8] Chiara Cruciati, “Damasco val bene un avvicinamento ai Fratelli Musulmani” uscito su Nena news il 14/04/2015
[9] Olivier Decottignes e Soner Cagaptay, “Turkey’s new base in Qatar” uscito sul Washington Institute il 11/01/2016
[10] Mahdi Darius Nazemroaya, “La guerra per l’energia si accende: Turchia,Israele,Qatar” uscito su Strategic Culture Foundation il 30/12/2015
[11] Bruno Ferroglio, “I cannoni di Ankara”, uscito su Lotta Comunista nel numero 547 del Marzo 2016

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